Curinga Ri-Vista attraverso la Storia, le Arti, la Cultura, le Foto, le Video Clip

HOME

News

La Nostra Storia

Calcio Stagione 2009-2010

Archivio News

Turismo

Foto dei Ricordi

Dove Siamo

Chi Siamo

Link Amici

Utility

Rubriche

Arte e Cultura

Le Associazioni

Notizie dal Mondo

Angolo della Poesia

Libri

Personaggi Storici

Resoconto Visitatori

E-mail Ricevuti

Artisti

Itinerari CALABRESI

Notizie Curiose
Alberghi a Curinga
Ristoranti e Pizzerie
Emergenza Droga
Ricette Curinghesi
L'Antichi Dicìanu
Numeri e Indirizzi Utili

Pagine sulla Emigrazione (di Domenico Curcio)

 
 

 

Emigrazione ed immigrazione        di Mimmo Curcio

L’Italia,  da un secolo e mezzo Paese di emigrazione, a partire dagli anni ’80, ha iniziato ad essere interessata anche dal fenomeno dell’immigrazione. Sicuramente questo è uno dei temi più controversi e discussi di oggi in Italia. Molti , però, non riflettono abbastanza quando si parla di immigrazione e, con questo articolo, io vorrei aprire una discussione approfondita su questo tema che interessa tutti e investe tutte le sfere del nostro vivere quotidiano. Dopo la prima delle sei regolarizzazioni avvenute nel nostro Paese, quella legata alla legge Martelli, l’Italia nel 1991 – dati del censimento – aveva 354.000 immigrati, nel 2001, 1334.000 immigrati, nel 2004 1.990.000 immigrati, nel 2009 4.279.000 (ISTAT)[1], cioè oltre il 7% della popolazione, 1 ogni 14 persone. Come si può vedere il dato dimostra che in meno di vent’anni l’immigrazione in Italia è decuplicata e in soli cinque anni è più che raddoppiata. L’Italia, con gli Stati Uniti, si presenta nel panorama mondiale oggi come il Paese a più alta pressione migratoria. La popolazione immigrata oggi nel nostro Paese proviene da 198 nazionalità diverse (‘pluricentrica’), con 140 lingue diverse. Quasi la metà proviene dall’area europea (I 26 Paesi e i paesi dell’Est comunque legati all’Europa) e dall’area mediterranea (complessivamente circa 50 Paesi), mentre la restante metà proviene dagli altri 150 Paesi del mondo.  L’ondata migratoria in Italia ha interessato soprattutto le regioni del Nord (60%), in secondo luogo le regioni del Centro (25%) e meno il Sud (15%). Al tempo stesso, però, l’immigrazione caratterizza fortemente le città e le aree metropolitane del Nord, ma anche del Centro (pensiamo Roma, ma anche Prato, Firenze, Ancona…) e del Sud (Napoli, Palermo,  Bari, Cosenza, Mazzara del Vallo..). L’immigrazione in Italia ha portato anche ad incontrare l’esperienza di fede di cristiani provenienti da oltre 190 Paesi del mondo. Infatti, degli oltre 4 milioni di immigrati,  2.011.000 sono cristiani, di cui 1.105.000 (28,4%) ortodossi, soprattutto provenienti dalla Romania, 739.000 cattolici (19%), 121.000 protestanti (3,1%) e 46.000 (1,2%) altri cristiani. In 12 regioni d’Italia il numero degli immigrati di fede e di tradizione cristiana sono la maggioranza, con percentuali che raggiungono il 67% nel Lazio e l’80% in Sardegna. Le regioni in cui i fratelli ortodossi sono percentualmente più presenti sono, con oltre il 30%, la Calabria, la Basilicata, la Campania, il Friuli, il Lazio, il Molise, il Piemonte, Umbria e Veneto. Questa dispersione territoriale dipende in larga misura dall’insediamento di due collettività numerose a maggioranza ortodossa: rumena e ucraina. I cattolici sono la metà del totale dei cristiani in Sardegna, il 30% in Liguria e oltre il 20% in Lombardia, nel Lazio e nel Molise.

 [1] Il Dossier Caritas/Migrantes  del 2009 fa una stima di 4.330.00, mentre il Rapporto ISMU 2009 – che stima anche gli immigrati irregolari – parla di 4.650.000.

Cosa  sta cambiando l’immigrazione                                                                                                                      Qualche elemento per dimostrare questo cambiamento .

    1. Cambia il mondo del lavoro. 2 milioni di lavoratori stranieri in Italia, 1 milione con un lavoro precario e flessibile, 150.000 imprenditori. 800.000 iscritti al sindacato.  400.000 inseriti in un percorso di lavoro nero. Si tratta di 4 su 5 lavoratori nei servizi alle famiglie, 5 su 10 lavoratori agricoli, 9 su 10 degli stagionali agricoli, 6 su 10 dei lavoratori del mondo della pesca e marittimi, 5 su 10 dei lavoratori in edilizia. Pochi pensionati. Il peso in termini di contributi per il Fondo pensioni di 3 miliardi di euro.
    2. Cambia la famiglia. Oltre 100 mila persone che vengono ogni anno per ricongiungimento familiare nell’ottica di un insediamento stabile.  94 mila sono i nuovi nati in Italia da madri straniere nel corso dell’anno 2009, il 16,4% del totale, di cui il 3,4% con partner italiano, che costituiscono un supporto indispensabile al nostro sbilanciato andamento demografico, con oltre il 20% della popolazione oltre i 65 anni.  24 mila matrimoni misti tra italiani e immigrati nel 2008, che si aggiungono agli oltre 400.000 già celebrati e che costituiscono una frontiera complessa, suggestiva e promettente della convivenza tra persone di diverse tradizioni culturali e religiose. In un milione di famiglie italiane è presente una badante o assistente alla persona – anziani e minori – di origine straniera (filippine, cingalesi, peruviani, rumene e ucraine), molte delle quali ortodosse.
    3. Cambia la scuola. Le 700 mila presenze a scuola in rappresentanza di tanti paesi, un vero e proprio mondo in classe. 6 mila studenti stranieri che si laureano annualmente in Italia, in buona parte destinati a diventare la classe dirigente nel Paese di origine. In molte scuole del Nord Italia gli studenti stranieri superano anche il 30% degli alunni. Nelle scuole cattoliche la presenza degli stranieri non raggiunge l’1%.
    4. Cambia la città. 40 mila persone che acquisiscono annualmente la cittadinanza italiana, a seguito di matrimonio o di anzianità di residenza, mostrando un forte attaccamento al nostro Paese. Alcuni quartieri e aree urbane sono fortemente caratterizzate al centro – Palermo o Roma – o in periferia – Milano, Bologna – dalla concentrazione di persone e etnie straniere. Mediamente  ognuno degli 8.000 comuni d’Italia ha 200 migranti.  E i migranti sono la maggior parte delle 2 milioni di persone che ogni anno cambiano regione e città in Italia, tanto che l’ultimo rapporto dell’ANCI è stato intitolato ‘Città mobili’.

 

Di fronte a questo mondo che cambia e si muove insieme, l’antica distinzione tra sedentario e nomade svanisce, perché in questo mondo che cambia è cambiata l’appartenenza: non si appartiene più al paese, alla città, alla regione allo Stato, neanche all’Europa; la vera appartenenza è al mondo, è globale. Tutto è messo in discussione e il problema dell’identità sta riguardando tutti i Paesi  a forte immigrazione

 

4.1 Oltre l’idea di immigrazione e emigrazione

 

La prima consapevolezza della mobilità è superare l’idea dell’emigrazione e dell’immigrazione, per approfondire l’idea di una nuova città globale, di una nuova cittadinanza globale. È un’idea che non schiaccia la città su meccanismi di protezione identitaria, ma apre la città sull’interpretazione della mobilità come componente che cambia la vita, le relazioni, l’amministrazione. Una prima conseguenza relazionale della mobilità è ritornare a mettere al centro la persona, la sua dignità prima che la sua appartenenza, la sua identità, nella differenza: questo significa la tutela dei diritti prima della tutela della residenza; la tutela della dignità della persona prima della conoscenza anche della sua identità. Nel mondo che si muove noi non possiamo fingere che ci siano degli ‘invisibili’, non possiamo fingere che ci siano dei ‘clandestini’, ma dobbiamo anzitutto riconoscere che ci sono persone nuove, non conosciute, con storie di vita differenti, con le quali anzitutto e prima di tutto costruire relazioni, andare incontro e non costruire il rifiuto, l’allontanamento, lo scontro. La vera sicurezza di una comunità è la relazione e la mediazione con le persone nuove che incrociamo, e la storia ci insegna questo. Tanto più oggi, in cui la consapevolezza che la nostra comunità è una briciola di fronte al mondo e che numeri, denatalità, malattie, cambiamenti la renderanno presto conquistata da un altro mondo: nel 2019, ad esempio, la città di Milano vedrà per la prima volta più bambini nati da 100 nazionalità diverse rispetto alle nascite di bambini italiani.

Anche Curinga fa parte di questo mondo in evoluzione ed è diventato un paese di immigrati. Badanti, operai, lavoratori nei campi ormai saranno qualche centinaio gli immigrati che vivono a Curinga. Svolgono quei lavori che noi non vogliamo più: questo è un meccanismo che scatta in tutte le società più avanzate ed è inarrestabile. Naturalmente queste sono persone che hanno portato con loro non solo le loro braccia ma tutto il loro mondo, la loro cultura il loro modo di essere. Memori delle nostre migliaia di emigrati e di come sono stati trattati, noi curinghesi come accogliamo e trattiamo questa persone?

 

                                                                                                Mimmo Curcio

 

Una breve meditazione                   di Cesare Natale Cesareo   

 

L’articolo di Mimmo Curcio  che abbiamo letto con molto interesse e pubblicato, si apre con indubbie e incontrovertibili situazioni storiche, che l’Italia come tutto l’occidente opulento, hanno vissuto e continuano a vivere attirando a se popolazioni in cerca di lavoro, sicurezza sociale, pace e speranza, per un futuro migliore per se stessi e per le future generazioni. Dicevo, articolo si apre con certezze, ma  si chiude con un interrogativo. Interrogativo che ci mette di fronte una realtà nuova alla quale dobbiamo dare delle risposte personali e comunitarie. Un bel punto dal quale partire per meditare ed agire. Soluzioni immediate è impossibile darne.. (forse ho già sbagliato dicendo e pesando  “soluzioni immediate è impossibile darne”) perché noi vediamo queste cose come problemi ai quali dare soluzioni,…. ripensandoci bene, sono solo opportunità che la vita ci offre per migliorarci e crescere e, in umiltà, migliorare e far crescere dei compagni di viaggio che ci accompagnano in questo breve tratto di strada.

 

   Cesare Natale Cesareo   

 

Ancora un tassello di storie di emigrazione

Clicca il titolo per leggere l'articolo

 
Ancora un tassello di storie di emigrazione che Mimmo Curcio 
ci propone per ricordare il nostro passato e i successi che
 il lavoro dei curinghesi ha ottenuto in tutto il mondo.
C. n. C. 
 
Invio una storia di emigrati curinghesi in Brasile
 con relativa traduzione
Mimmo Curcio

 

Partenze

 

Figlio

Qui mi son posta

Per esserti guida nel cammino

Sorreggere le tue speranze

Consolare i tuoi dolori

Come sol può fare

Tua madre

 Curinga,09-05-2010

Queste poche, avvolgenti, amorevoli, consolatorie frasi hanno accompagnato nel loro lungo viaggio decine di emigrati curinghesi del secondo dopoguerra. Ancora oggi, molti di loro le conoscono a memoria. Le frasi sono incise alla base della statua della madonnina del Carmine posta a Gornelli a rappresentare, per chi partiva, l’ultimo saluto al paese. La partenza di un emigrato, specialmente per chi partiva verso le Americhe o l’Australia, era vissuta come un vero e proprio lutto, infatti molti capivano che, probabilmente, non sarebbero più tornati al paese. La partenza iniziava con il giro delle chiese di Curinga e con le preghiere affinché tutto andasse bene.Si continuava con il saluto dei parenti e in casa di chi partiva, le sedie erano sistemate come quando c’è un lutto. La fermata finale era alla statuina della Madonna di Gornelli dove veniva recitata la preghiera già citata.

Molti parenti, poi, accompagnavano i partenti al porto di Napoli e qui, come raccontano le cronache avveniva una delle scene più emozionanti riguardanti la partenza e il distacco.  Riporto integralmente la descrizione della scena riportata in un pannello della mostra “Lifeline( Filo della vita) organizzata dalla scultrice americana B. Amore emigrata in America da uno dei tanti paesi meridionali “ Mentre che la nave partì dal molo lentamente, i gomitoli di lana si sfilarono lentamente fra le grida d’addio delle donne e i battiti dei fazzoletti tenuti in alto dai bambini. Dopo l’esaurimento del gomitolo di lana, le strisce lunghe rimanevano in aria, sostenute dal vento finchè non si perdevano di vista sia a quelli di terra sia a quelli sulla nave”.Il significato era chiaro: si voleva protrarre il legame che la partenza avrebbe forse spezzato per sempre.

 Agli inizi del Novecento si emigrava da Curinga preferibilmente verso “ l’America bona “, con questo semplice aggettivo i curinghesi identificavano gli Stati Uniti , distingendoli dall’America del Sud. Negli USA erano inseriti al più basso livello di occupazione industriale, relegati in maniera o lungo la “ tracca” ( da truck, linea ferroviaria). Nel secondo dopoguerra da Curinga si emigrava verso il Canada, USA, Australia e Paesi Europei. Quanti furono i curinghesi che emigrarono? Attualmente si può parlare solo di stime e grazie alle ricerche recenti di Fabio Fruci, giovane ricercatore, si può affermare che negli anni tra il 1959 e il 1969 emigrarono da Curinga 2500 persone con saldo netto tra partenze e rimpatri di 1000 persone. Gli anni peggiori furono il 1962 in cui emigrarono 200 persone, il 1966 con 230 e il 1967 e1968 con 200 per anno. Come si può notare si tratta di cifre significative e, mentre nel mondo scoppiava la contestazione giovanile da Curinga si emigrava. Questi numeri ci spiegano come in quegli anni il paese si spopolò.

Tra fine ottocento e inizi del novecento si crearono catene emigratorie nei posti più sperduti degli USA e io, qualcuna , sono riuscito a ricostruirla tramite lettere di emigranti e ricerche anche orali. Quest’argomento sarà al centro di un prossimo articolo. 

             Mimmo Curcio 

 

Nelle Baracche tra i Grattacieli.

Nelle baracche tra i grattacieli


"Come vivono gli italiani nei peggiori bassifondi", foto di Jacob Riis, scattata in Jersey Street nel 1897 ed esposta al Museum of the City of New York. Scrive Adolfo Rossi, autore nel 1894 di Un italiano in America: "A New York c'è quasi da vergognarsi di essere italiani. La grande maggioranza dei nostri compatrioti, formata dalla classe più miserabile delle provincie meridionali, abita nel quartiere meno pulito della città, chiamato i Cinque Punti (Five Points). È un agglomeramento di casacce nere e ributtanti, dove la gente vive accatastata peggio delle bestie. In una sola stanza abitano famiglie numerose: uomini, donne, cani, gatti e scimmie mangiano e dormono insieme nello stesso bugigattolo senz'aria e senza luce. In alcune case di Baxter e Mulberry Street, è tanto il sudiciume e così mefitica l'atmosfera da far parere impossibile che ai primi calori dell'estate non si sviluppi ogni anno un colera micidialissimo."

Svizzera 1962: in 16 in una stanza

 Nella foto Murat, archivio del "Corriere della Sera", la stanza in cui nel 1962 vivevano alcuni immigrati italiani a Ginevra. La didascalia scritta dal fotografo dietro la stampa precisa: "la stanza misura 7 metri per 4 e vi sono sistemati 16 operai. Ciascuno di essi paga, al mese, per il materasso, 60 franchi, ossia 8640 lire". Vale a dire, secondo l'ultima valutazione delle lire 2001, circa 150 mila lire. Il padrone incassava dunque, per una camera, due milioni e mezzo. Nella stessa stanza facevano anche da mangiare.

Fonte: "Il Corriere della Sera

Svizzera 1962: catapecchie

 Nella foto Murat, archivio del "Corriere della Sera", alcune baracche abitate da emigrati italiani nel quartiere "Praille" a Ginevra. Era il 1962. L' Italia era in pieno boom. Anzi: Luciano Benetton avrebbe raccontato qualche anno dopo che in Veneto "c'era già chi si lamentava: il boom è sgonfio"

Svizzera 1962: baracche tra il pattume

Nella foto Murat, archivio del "Corriere della Sera", alcune baracche abitate da emigrati italiani nel quartiere "Praille" a Ginevra. Era il 1962. L'anno in cui esplodevano i Beatles, Sean Connery girava "007, licenza di uccidere" e la Juventus era pazza di Omar Sivori.
Fonte: "Il Corriere della Sera"

Un lavandino ogni 16 persone

Nella foto di "Sorrisi e Canzoni", emigranti italiani a Ginevra nel 1973. La didascalia spiega che dormono in 32 per ogni baracca e hanno un lavandino ogni 16 persone.

Una stanza per dormire, lavorare, cucinare

Nella foto di Jacob Riis scattata a Bayard Street nel 1888, un gruppo di italiani ammucchiati in una sola stanza in un condominio di Bayard Street. Scriveva lo stesso Riis nel libro "Così vive l'altra metà": "i rapporti di polizia che parlano di uomini e di donne che si uccidono cadendo dai tetti e dai davanzali delle finestre mentre dormono, annunciano che si avvicina l'epoca delle grandi sofferenze per la povera gente. È nel periodo caldo, quando la vita in casa diventa insopportabile per dover cucinare, dormire e lavorare tutti stipati in una piccola stanza, che gli edifici scoppiano, intolleranti di qualsiasi costrizione. Allora una vita strana e pittoresca si trasferisce sui tetti piatti. [...] Nelle soffocanti notti di luglio, quando quei casermoni sono come forni accesi, e i loro muri emanano il caldo assorbito di giorno, gli uomini e le donne si sdraiano in file irrequiete, ansanti, alla ricerca di un po' di sonno, d'un po' d'aria. Allora ogni camion per la strada, ogni scala di sicurezza stipata, diventa una camera da letto, preferibile a qualsiasi altro luogo all'interno della casa. [...] La vita nei caseggiati, in luglio e agosto, vuol dire la morte per un esercito di bambini piccoli che tutta la scienza dei medici è impotente a salvare".

Marcinelle, negli hangar nazisti

Nella foto, gli hangar in cui vivevano i minatori italiani a Marcinelle. Solo pochi anni prima erano sede di un campo di prigionia nazista. Abitavano qui, in condizioni di grande disagio, molte delle vittime della tragedia dell'8 agosto 1956, quando 262 minatori, dei quali 136 erano calabresi, veneti, siciliani o campani, morirono intrappolati 835 metri sottoterra.

Belgio, anni '60: nelle baracche del lager

Foto di "Oggi" 5-3-1964. La didascalia spiega: "Un bimbo italiano ritratto nella desolata zona di Lanklaar, dove i tedeschi avevano creato un campo di concentramento per i prigionieri guerra sovietici. In queste squallide baracche vivono 35 famiglie di nostri connazionali (..) insieme con emigrati greci, spagnoli e turchi"
Pubblicata da Oggi

L'angolo privato in una baracca.
Belgio, anni cinquanta.
La Valigia, Vicenza

L’Italia, oggi, è diventata un paese di immigrazione e sembra aver perso la propria memoria storica rimuovendo, cioè, dalla memoria collettiva quello che noi siamo stati e siamo ancora: un popolo di emigranti. Con questo servizio mi propongo di far riflettere tutti su quello che i nostri emigrati hanno sofferto. Mi propongo, anche, di far riflettere sugli errori commessi dagli altri e che stiamo commettendo pure noi. Il popolo italiano dovrebbe, a mio parere , essere molto più sensibile sui temi della solidarietà e dell’accoglienza e, soprattutto, dovrebbe ricordare

 Mimmo Curcio

We want bread and roses too

( vogliamo il pane e le rose).

I primi anni del ‘900 negli Stati Uniti furono anni di duri scontri tra lavoratori e capitalisti. In alcuni casi si verificarono veri atti di guerra con scontri violentissimi tra gli eserciti privati dei padroni e gli operai. Numerose furono le vittime tra gli operai e minatori che erano quasi tutti immigrati di diverse nazionalità : italiani, svedesi, tedeschi, polacchi, ucraini, ecc. Gli italiani, allora, godevano di scarsissima considerazione poiché erano quasi sempre utilizzati in operazioni di crumiraggio perché scarsamente sindacalizzati. Ad certo punto, però, gli italiani divennero la punta di diamante del movimento operaio statunitense e lo dimostrarono nello sciopero di Lawrence, Massachussent, divenuto famoso nel mondo con lo slogan: "Vogliamo il pane ma anche le rose", cioè oltre ad un migliore salario si cercava anche una vita più dignitosa. Lo sciopero scoppiava in maniera spontanea il 25 gennaio 1912 in seguito ad una riduzione salariale di 35 centesimi corrispondenti, allora, all’acquisto di ben 10 pagnotte. Furono coinvolti 30.000 operai, quasi tutti immigrati o figli di immigrati, dell’industria tessile American Company Woollen . I 7000 italiani rappresentavano il gruppo etnico più numeroso fra i dimostranti che si suddividevano in 25 gruppi di nazionalità diverse. Giunsero molti giornalisti sul posto che rimasero impressionati dalle modalità del tutto nuove impiegate in questo sciopero. Attribuirono queste modalità rivoluzionarie agli italiani poiché italiani erano i sindacalisti Joseph Ettor, Arturo Giovannitti e Joseph Caruso che guidarono lo sciopero. Il trasferimento dei bambini presso altre famiglie di operai e intellettuali solidali, i canti intonati in tante lingue diverse, i manifesti mobili che venivano spostati continuamente per impedire provocazioni, uomini, donne e bambini che si sdraiavano per terra quando la polizia stava per caricare. Le manifestazioni delle donne che marciavano cantando e con striscioni con su scritto lo slogan che le rese famose nel mondo:" We want bread and roses too ( vogliamo il pane e le rose). Per la prima volta si rivendicava una vita più gentile e più dignitosa per le donne. Tutte queste cose impressionarono l’opinione pubblica americana e resero lo sciopero di Lawrence unico nel contesto delle lotte operaie. La vera mossa vincente, però, fu l’esodo dei bambini denutriti verso altre città come New York, Philadelfia, ecc. L’ondata di sdegno provocata dalla vista di questi bambini convinse i proprietari delle industrie tessili a cedere e ad accordare un aumento salariale compreso tra il 5 e il sette per cento. Negli scontri con la polizia rimase uccisa una donna italiana Anna Lopezzi e della sua morte furono accusati due sindacalisti che erano completamente innocenti. Questo sciopero rimase alla storia e fu l’inizio di un percorso che portò al riconoscimento di piena dignità e parità degli italiani sino ad allora considerati servi dei padroni e crumiri.

Mimmo Curcio

La valigia di cartone con dentro la laurea.


Il rapporto SVIMEZ 2009, pubblicizzato su tutte le maggiori testate nazionali, nel suo periodico resoconto sull’economia del Mezzogiorno, ci svela una notizia di cui nessuno si era mai reso conto e cioè che “I meridionali emigrano ancora al Nord in cerca di lavoro: la scoperta del secolo o quella dell’acqua calda?

C’è voluto un poderoso studio della prestigiosa associazione per dire al mondo ciò che tutti sanno e ciò che milioni di giovani meridionali vivono quotidianamente sulla loro pelle, un’ingiustizia che nessuno ha interesse a correggere.
E’ curioso, tuttavia, analizzare i modelli comunicativi utilizzati dai maggiori giornali nazionali per dare la notizia:


Repubblica: “Non hanno più la valigia chiusa con lo spago, ma i meridionali continuano a emigrare al Nord“;

Ma come si fa ancora riferimento ai nostri nonni? La frase del giornalista di Repubblica certo utilizza un cliché ad effetto, uno buono per tutte le stagioni, che alle nostre orecchie suona come: “non hanno più l’anello al naso ma questi bravi extracomunitari oggi arrivano in Europa indossando magliette occidentali, jeans e sono pure laureati”. Sarà appena il caso di ricordare che sono decenni che il Meridione rifornisce l’intera nazione di professionisti laureati; sì perché mentre la grande offerta di lavoro al nord invogliava i residenti a non proseguire negli studi, la sempre eccessiva percentuale di disoccupati al sud costringeva molti giovani a passare il tempo nelle università finendo così per prendere davvero la laurea. A questo aggiungerei l’atavica voglia di riscatto di molti  meridionali che hanno sognato per anni di potersi rivalere attraverso i propri figli contribuendo in questo modo alla creazione di una classe di professionisti che oggi rappresenta la vera ricchezza del nostro meridione, seppure in evidente eccesso rispetto alle richieste del mercato.

l’Unità: “e il Sud tricolore si conferma un anatroccolo che non riesce a diventare cigno“;

Ma come non riesce a diventare cigno? Abbiamo appena detto che la maggiore concentrazione di laureati è rappresentata da giovani meridionali e poi parliamo di brutti anatroccoli? Forse il bravo giornalista dell’Unità si riferiva al territorio e alla società geograficamente residente al meridione. Ma ha mai riflettuto questo signore sulla vera natura dell’economia del nostro Paese? Su come è strutturata?

Facciamo un esempio: un giovane italiano nato a Sud prende la sua bella laurea e si presenta sul mercato pronto a raccogliere i frutti dei sacrifici, anche economici, che lui e la sua famiglia hanno dovuto sopportare.

Diciamo subito che questo ragazzo avrà tante più possibilità di collocarsi quanto più potente economicamente o politicamente è il suo clan di provenienza. In questo possiamo già individuare una società strutturata in caste, apparentemente invisibili, eppure rigidamente strutturate. Vi faccio qualche esempio per chiarire le idee; se questo ragazzo è figlio di un politico, non necessariamente di alto livello, di un avvocato di grido, di un notaio, di un farmacista, di un professore universitario, di un dipendente della pubblica amministrazione (anche in questo caso non è necessario che sia di alto livello), di un sindacalista, un alto dirigente bancario, può ragionevolmente sperare di riuscire a collocarsi lavorativamente in un periodo di tempo ragionevole. Non ci impelagheremo, in questa sede, in giudizi sull’etica di questo comportamento sociale, siamo nella terra del “si salvi chi può“.

Ma supponiamo che questo ragazzo sia figlio di un signor nessuno, la maggioranza di costoro, non ha quasi nessuna possibilità di lavorare .

Ipotizziamo quindi un gruppo di nostri giovani, freschi di studi all’avanguardia, che certo le nostre università non lesinano, e con il pieno possesso di tutte le tecniche del marketing e della moderna comunicazione, decida di mettersi sul mercato … un suicidio.

Per cominciare dovrà per forza affittare un locale, con questo accollandosi un onere non da poco per un periodo di tempo non inferiore ad un semestre. Successivamente la seconda batosta, quando si recherà dal notaio per stipulare la società, quindi la tassa per la Camera di commercio, quella per l’Ufficio di registro, i costi del commercialista, della banca, l’allaccio delle utenze, ecc. Pensate tutti questi costi sono tutti interconnessi e inevitabili, senza che il nostro gruppo di ragazzi abbia ancora mosso un dito.

Successivamente chiederà un finanziamento ad una banca per poter iniziare la propria attività, eh sì perché se ben ricordate i nostri ragazzi sono figli di nessuno, non hanno capitali, solo i loro cervelli. Le procedure saranno lunghe e il risultato incerto.

Infine la neosocietà inizierà ad operare sul mercato; ma se pensa di iniziare a lavorare con la pubblica amministrazione sbaglia, i meccanismi sono strani, complessi, occorre avere qualche amico che ti aiuta, e infine, particolare non da poco, occorre avere un fatturato minimo, che ovviamente i nostri ragazzi, appena all’inizio della loro vita lavorativa non hanno, ergo sono tagliati fuori.

Se pensano invece di operare sul libero mercato hanno qualche chance sempre che si adeguino subito all’andazzo.


I nostri ragazzi avranno capito ora di essere tagliati fuori e decidono allora di orientarsi su altri mercati dove comprenderanno presto di avere a che fare con un sistema di infrastrutture obsoleto, fatiscente e costoso.

E ancora: “I laureati “eccellenti” abbandonano il Sud”, chiosa Repubblica.

Secondo SVIMEZ la percentuale di laureati con il massimo dei voti è salita, dal 2004 al 2009, dal 25% al 38%; certo siamo alla frutta, sono coloro che in questi anni si sono illusi di poter costruire un Paese felice. Certo si erano illusi, perché si sentivano forti, onesti, acculturati e pronti a contribuire alla costruzione di un sud migliore: stanno andando via tutti, perché non sono più disposti a sottostare al ricatto occupazionale che i famelici squali continuano a perpetrare, generazione dopo generazione, un ricatto che non accenna a placarsi e che impone una radicale, coraggiosa, inversione di tendenza, una decisa presa di coscienza sull’opportunità di accettare la sfida e diventare protagonisti della gestione della cosa pubblica, scevri, oggi come non mai, da vecchie logiche clientelari, pronti ad immolarsi in una guerra senza esclusione di colpi contro interessi economici enormi dove tutti gli interessati sono pronti a difendere con i denti il loro bottino.

L’emigrazione, in definitiva, non è mai cessata, ha assunto, semplicemente, forme diverse. Emigrano i laureati e non solo al Nord ma anche nei paesi europei ed extraeuropei e sicuramente non bisognava aspettare  la relazione dello SVIMEZ per scoprirlo. Centinaia di famiglie meridionali hanno fatto studiare i propri figli per vederli partire come i loro nonni o i loro padri in cerca di opportunità per  migliorare la propria vita  ma, non sempre, purtroppo, quanto desiderato si riesce a realizzare.

Mimmo Curcio

PS: Chiunque voglia scrivermi su questo argomento o sull’emigrazione in genere mi può scrivere o attraverso il sito o a quest’indirizzo: do.curcio@libero.it

"Giornata Nazionale del Sacrificio del Lavoro Italiano nel Mondo"

 

La "Giornata Nazionale del Sacrificio del Lavoro Italiano nel Mondo" è stata istituita  con una Direttiva, del 1° dicembre 2001, del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Con questa ricorrenza, l’8 Agosto di ogni anno, si vogliono richiamare alla memoria i sacrifici dei lavoratori italiani nel mondo e far conoscere e valorizzare il tributo da loro apportato in terra straniera sul piano sociale, culturale  ed economico.

La storia dell'emigrazione italiana è stata segnata da tragedie come quella del crollo della miniera di carbone a Marcinelle, consumata proprio l'8 agosto del 1956, che costò la vita a 262 minatori, tra i quali 136 italiani. Frutto di un accordo bilaterale tra Italia e Belgio, manodopera contro fornitura di carbone, migliaia di giovani italiani emigrarono in Belgio per lavorare nelle miniere di carbone. Inutile descrivere le condizioni di lavoro e i soprusi a cui questi lavoratori furono sottoposti: basta ricordare che chi si rifiutava di scendere nelle miniere veniva arrestato con l’accusa di rescissione unilaterale del contratto di lavoro. Dopo la tragedia il governo italiano fu costretto ad intervenire e ad occuparsi delle condizioni in cui vivevano i lavoratori italiani.

Molte sono, nella storia dell’emigrazione, le tragedie che hanno avuto tra le vittime lavoratori italiani: Monongah, Dawson, Mattmark, tutti incidenti minerari in cui migliaia di lavoratori italiani hanno perso la vita. Non bisogna dimenticare gli italiani vittime di linciaggi, conseguenza di un razzismo esasperato, soprattutto negli Stati Uniti, dove gli italiani erano considerati una razza di mezzo molto vicina ai negri.  Agli inizi del 900, inoltre, in  West Virginia e altri stati d’America, lo scontro tra i minatori e i proprietari delle miniere fu durissimo rasentando, in alcuni momenti, veri atti di guerra civile e gli italiani, dapprima considerati lavoratori “crumiri”, poi divennero protagonisti di queste battaglie pagando un tributo altissimo di vittime e di ritorsioni. I lavoratori italiani all’estero hanno abitato le periferie del mondo e , con il loro lavoro e i loro immani sacrifici, hanno contribuito allo sviluppo e al progresso dei Paesi che li hanno ospitati. Il mio invito personale è che l’8 Agosto, ognuno d noi trovi due minuti di raccoglimento e di preghiera da dedicare a tutti questi lavoratori  che dobbiamo considerare nostri fratelli.

                                                                                                                    Mimmo Curcio