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Vincenzo Sgromo:

un esempio da additare ai posteri.

 

Per gentile concessione del Prof. Martino Granata

Da tempo ormai presagiva l’evento se le sue attenzioni erano rivolte a ciò che avrebbe lasciato dietro di sé, organizzando perfino le più minuscole incombenze quotidiane, disseminando qua e là su foglietti, posti nei punti strategici, raccomandazioni, indicazioni, suggerimenti, insegnamenti. Aveva pregato la moglie, finanche, di dare alle fiamme alcuni suoi scritti cui aveva atteso da qualche anno a questa parte. “Bettina, brucia quelle scartoffie” – aveva detto un giorno come per far capire che ormai con le cose terrene, che non avessero l’essenza ed il sapore degli  affetti più intimi, non voleva più rapporti e che si era disposto a spiccare il volo verso il mondo dei Giusti.

E così, in una mite mattinata di gennaio, dopo aver sorbito la consueta fragrante tazza di caffè in cui  l’ineffabile consorte aveva versato, insieme allo zucchero, i primi e, ahimè, ultimi cucchiaini delle quotidiane affettuose premure, è volato, con una naturalezza senza confini, da una vita all’altra , quasi accompagnato carezzevolmente dalle mani della compagna nell’abbraccio infinito di Tino che si sarà presentato puntuale all’appuntamento, pronto ad accogliere l’impercettibile respiro-sospiro del padre.

Gli era accanto, sicuramente, Ivana, la dolce, tenera fidanzata. Insieme avranno terso dal suo volto trasfigurato le perle cristallizzate della sorgente di lacrime accesa dallo schianto sulla montagna di Antalya, d’onde son virate, su familiari e amici, nubi perenni di dolore e di  pianto che, quaggiù, continuano ancora a straziare le pareti della loro anima da quel melanconico settembre del 1976.

Aveva imboccato così la rampa dei ponti del Cielo la vita normale di un uomo straordinario che ha seminato lungo il suo cammino esempi luminosi  di alto sentire con la semplicità  che solo le persone grandi riescono a coniugare in ogni circostanza, attingendo a piene mani alle riserve inesauribili del proprio cuore, per tutto l’arco dell’esistenza. Una vita, la sua, ferita più volte negli affetti più cari, ma costellata, per quanto concerne la sfera intellettiva, di successi a catena, di eventi eclatanti ed esaltanti perseguiti, però, con determinazione  e sforzi sovrumani e vissuti con estrema riservatezza e semplicità, per la convinzione assoluta che non sono le affermazioni personali a costruire la vera storia di un uomo, ma ciò che egli riesce a fare per il prossimo: il suo intendimento principale è stato sempre di operare  bene per il Bene di tutti. In qualsiasi campo sia stato chiamato a dare il suo contributo per circostanze fortuite,  per libera scelta, per doveroso ufficio, ha profuso sempre il meglio di sè  onorando ogni impegno con puntualità, zelo, coerenza, rettitudine, senso di giustizia, irrorati sempre di  palpabile, densa umanità. Egli è stato un uomo che ha dato alla sua vita delle direttive ferree e inderogabili per poter essere magnanimo e accondiscendente con gli altri; un uomo che ha trattato se stesso con  rigore e severità per poter essere clemente e disponibile con la gente, ligio ed ossequente al dovere con estrema abnegazione  e fino al più alto sacrificio per poter  essere indulgente  e tollerante con chi gli era, di volta in volta, di fronte.

E soltanto per essere libero di dare quanto più possibile, era estremamente necessario per lui elevarsi fino alla vetta dei valori più sublimi e profondi della vita; era indispensabile innalzare ad essi  altari perenni di culto nel proprio cuore e nella propria mente. Si mise a coltivarli con un impegno e una passione commoventi fin da ragazzo, illuminato dall’esempio del suo maestro delle ultime classi e tacitamente incoraggiato e  protetto dall’affetto smisurato della mamma.

Dotato di vivida intelligenza, forte della solida preparazione di base acquisita nella quinta e nella sesta elementare dirette dal maestro Vincenzo Sestito (del quale serberà per tutta la vita un grato ricordo),  assistito dalla sua passione per lo studio, sorretto da una eccezionale forza di volontà, incalzato dalla sua insaziabile sete di conoscenza, spinto dal desiderio di migliorare il tenore della sua esistenza e animato dalla speranza di potersi rendere utile al prossimo, con la consapevolezza che solo attraverso la cultura si poteva volgere in positivo il corso della propria storia e di quella dei propri simili, lesse con avidità quasi tutti i libri esistenti in Curinga, presso la biblioteca comunale e presso quelle di famiglia dei molti curinghesi disposti a cederglieli in prestito riuscendo a costruirsi una preparazione ampia e profonda – impresa veramente eroica per quei tempi - in quasi tutti i campi dello scibile umano. Attendeva, sempre da autodidatta, allo studio della letteratura italiana, della grammatica e della letteratura latina, del greco, della filosofia e della pedagogia, della musica, dell’algebra e della geometria, della fisica e della chimica, della storia e della geografia, ….  sempre a spese dello svago e del tempo previsto per il sonno, chè anch’egli, come tutti i ragazzi dell’epoca, aveva delle mansioni da svolgere durante la giornata per aiutare la famiglia.

Divorava i classici della letteratura mondiale che riusciva a recuperare e non lesinava tempo  allo studio delle lingue straniere.  E intanto scrutava l’orizzonte con l’ansia di aprirvisi un varco e superare quei confini che frenavano lo slancio della sua curiosità, che tarpavano le ali alla sua intraprendenza, che impedivano alla sua mente di svicolare dagli angusti tepori del paesello natio e di librarsi nella brezza fresca e rivitalizzante d’un universo culturale più ampio e profondo.

Diede ala alle sue aspirazioni e gonfiò di fiducia la vela delle sue speranze la chiamata per prestare il servizio militare, ma quale non fu la delusione e l’amarezza quando si vide destinato dalla Commissione di leva alla caserma di  Vibo Valentia, proprio ad un passo da casa!

Non si perse d’animo ed estremamente convinto che “faber est suae quisque fortunae” (ciascuno è artefice della propria sorte), come sentenziava Appio Claudio cieco, decise di scardinare il corso degli eventi avanzando richiesta di iscrizione alla scuola per sottufficiali. Fu mandato a Nocera Inferiore e, alla conclusione della scuola stessa, a Bressanone, nel Trentino Alto Adige, come sergente nel corpo degli Alpini.

Un altro colpo di remi alla barca della sua esistenza lo inferse quando chiese ed ottenne di essere inviato in Africa, in quella Etiopia in cui erano in atto le operazioni di conquista dell’Italia. Lì avrebbe potuto esaudire il suo fervente spirito di avventura, essendosi accorto che la  vita di caserma si stava assestando su binari  di monotonia e di spreco delle risorse  intellettuali, spirituali ed umane di cui aveva ricolmi la mente e il cuore.

Trascorre il 22° Natale della sua gioventù ed il Capodanno 1936 con i commilitoni della Divisione Tevere sul piroscafo Lombardia che attraccherà a Mogadiscio qualche giorno dopo. Rimarrà in Somalia fino a luglio prima di inoltrarsi nello stato etiopico occupato completamente appena due mesi prima dalle nostre truppe. Gli viene affidato un contingente di indigeni che dovrà addestrare e formare per contribuire al progresso culturale, economico e sociale di quelle popolazioni e per garantire la loro sicurezza costantemente minacciata da tribù ribelli. L’attività militare e umanitaria non ferma i suoi studi e, fidando sempre ed esclusivamente sulle sue forze, da autodidatta cronico qual era, consegue ad Addis Abeba il diploma di maestro elementare che gli apre le porte della Scuola per allievi ufficiali la cui frequenza si conclude con il conseguimento dei gradi di sottotenente. Inutile dire che era intanto riuscito ad imparare l’amharico e l’arabo per poter formare, in maniera ineccepibile e senza interposta persona, militarmente e culturalmente i soldati reclutati in loco e per comunicare con le genti abissine. Non  mancano gli atti di eroismo se gli vengono conferite quattro medaglie al valore e numerosi encomi e se si merita l’appellativo de “il leone” dai soldati del Comando per le sue temerarie imprese, i suoi intrepidi slanci.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale e le tragedie che si consumano in ogni parte della terra, e soprattutto in Europa e in Italia, non risparmiano nemmeno l’Africa che, in seguito, verrà scelta dagli anglo-americani come base per sferrare l’attacco mortale alle truppe dell’Asse. Nella primavera del 1941 gli inglesi invadono l’Etiopia e annientano la resistenza dei reparti italiani ed il Nostro, alla testa del suo contingente di fidi Ascari si impegna a rallentare la loro avanzata per permettere alle forze regolari, guidate dal Duca d’Aosta, Amedeo Umberto di Savoia, di organizzare la difesa e fermare l’esercito britannico.   Sopraffatto, dopo impari lotta, cade nelle mani  del nemico. Comincia per lui un’autentica Via Crucis da un campo di prigionia all’altro dove viene fatto oggetto di soprusi indescrivibili e costretto a subire mortificazioni di ogni genere per l’eticità del suo comportamento e lo sdegnoso e deciso rifiuto di firmare disonorevoli documenti di cooperazione con il vincitore.

  La sofferenza più insopportabile per lui è procurata dall’attacco sferrato alla sua mente attraverso la recisione dei canali culturali. Si salva in parte perché, nell’autentica babele di ogni campo di prigionia, egli cerca di dipanare l’ingarbugliata matassa di un’accozzaglia di idiomi che si incrociano in maniera convulsa e confusa. Lo sforzo  profuso per la comprensione dei vari linguaggi non solo preserva il suo intelletto dal processo di fossilizzazione programmato dagli aguzzini di turno, ma gli permette di capire e di parlare lo spagnolo, il portoghese, il francese, il tedesco e, soprattutto, l’inglese.

Finalmente,  nel 1946, dopo cinque anni e mezzo di prigionia, scontata in gran parte nel Kenia, ed undici anni completi trascorsi in Africa, è libero di ritornare in patria. Prima di partire per l’Italia sente inderogabile il bisogno-dovere di salutare le persone con cui aveva instaurato legami profondi di sincera amicizia in tutti quegli anni. Va ad accommiatarsi anche dalla famiglia di un suo superiore cui è legato da vincoli di sincero, reciproco affetto. Dopo aver salutato, si allontana con andatura  decisa per mascherare la commozione struggente che gli scuote l’anima, ma, come nelle favole più belle, si sente rincorrere da un concitato …“Un momento… aspettate un momento!”, pronunciato dalla moglie dell’ufficiale. Lui ritorna sui suoi passi mentre lei  entra in casa. Ricompare un attimo dopo e gli consegna il diploma di maestro che egli aveva conseguito alcuni anni prima – e del quale ormai non aveva più traccia -   e che ella  gli aveva amorevolmente  custodito per tutto il lungo periodo della sua prigionia.

È bastato questo barlume, acceso sul mesto grigiore delle incertezze,   a riconciliarlo con la speranza e a consentirgli di depositare un velo pietoso e cauterizzante sul cumulo delle macerie, che aveva in fondo al cuore:  i  sogni, corteggiati nell’incanto giovanile, demoliti tutti insieme da beffardi eventi.  Ritornava in Italia fortemente amareggiato ed estremamente deluso, ma , nel contempo, supportato da una cultura immensa e salda perché intessuta, trama dopo trama, ai telai del sacrificio e della costanza.

Si sentiva, comunque, a posto con la propria coscienza principalmente per non aver derogato mai ai suoi principi morali, per non aver perso di vista nemmeno per un attimo i suoi ideali più nobili, per aver reso onore, in ogni circostanza, ai più alti  e sacri valori dell’uomo.

E…via! Si ricomincia!

Dismessa la divisa militare sulle cui spallette luccicavano di freschezza immacolata le tre stellette d’oro di capitano, grazie al suo diploma, recuperato come avviene nei racconti popolati di fate, ed al concorso magistrale, superato con estrema facilità, inizia una nuova, straordinaria avventura in un campo operativo più consono a quelle sue aspirazioni cullate a lungo nel nucleo più intimo  del  cuore e vagheggiate con fiduciosa intensità dalla sua mente fin dall’età fanciulla: il mondo  della scuola, il suo mondo!

Per prima cosa opera la scelta più importante e, come ripeterà sempre con commovente orgoglio, fino all’ultimo respiro, la più indovinata della sua vita, perchè conduce sull’altare la giovane maestra Elisabetta Senese, una donna che con la sua  spontanea e aperta esuberanza, fondata su una bontà d’animo, una generosità e un affetto sconfinati e su un’intelligenza ed una perspicacia non comuni, vivrà per lui e a lui dedicherà ogni istante della propria vita.

   Vien da sé,  per converso, come recita un  consolidato adagio popolare, che “da amore…  amore nasce”.    

Intanto il dott. Fortunato Perugini, durante il suo mandato (1948-1952) di primo sindaco eletto di Curinga nel secondo dopoguerra, gli affida la presidenza dell’E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza) sia per le riconosciute capacità organizzative, sia per le note doti di integrità morale e lo spiccato senso di giustizia, sia perché, ammalato inguaribile, al par di lui, di viscerale filantropia  e sia, infine,  - diciamolo pure - perché la carica doveva essere ricoperta  a titolo gratuito e nessuno era volontariamente disposto ad accollarsi grane … pure da “grana”.

Con il consueto zelo e senza perder tempo, si mette  all’opera e, come per magia, da uno scaffale riesuma, dopo ben nove anni, un plico contenente le volontà testamentarie del Maggiore dei Carabinieri in pensione Sebastiano Perugino, espresse in data 7 giugno 1940, appena pochi mesi prima della sua morte, avvenuta il 30 novembre successivo.  Nel testamento il Maggiore dichiarava la volontà di elargire all’ECA di Curinga parte dei suoi averi, consistenti principalmente in una villa signorile edificata nella zona alta del paese sul prolungamento di via S.Rocco, una cospicua somma in denaro e una consistente collezione numismatica di indiscusso pregio e valore. Tali beni dovevano essere destinati, come testualmente enunciato, alla costituzione di “un Ospizio di mendicità per i poveri  più bisognosi del paese”.  In subordine, se entro i termini perentori di dieci anni dalla data del testamento l’ospizio non fosse stato creato, tutti quei beni sarebbero stati acquisiti dalla Congregazione della Madonna del Carmelo di cui egli era stato  confratello fin dalla nascita.

Dall’esame dei tempi, siamo ormai nel 1949, si evince chiaramente che sarebbe bastato appena un anno  perché la volontà primaria del Benefattore venisse frustrata.

Edotto da alcune esperienze negative pregresse che lo avevano toccato da vicino, il neo presidente dell’Ente di assistenza comunale si adopera con lena incessante per bruciare le tappe in modo che la nobile intuizione del Maggiore si concretizzasse al più presto onde evitare che, per preconizzato oblio, si dissolvesse.

Confortato dal sostegno incondizionato del sindaco, dott. Fortunato Perugini, dal tesoriere comunale ed esecutore testamentario, sig. Pietro Gullo, e dal parere favorevole di  altri consiglieri, tra cui i sigg. Vincenzo Michienzi, Pasquale Mazzotta e Giovambattista Gaudino, riesce a far deliberare l’istituzione dell’ Ospizio di Mendicità che sarà intitolato al nome del generoso donatore. Per rogare l’atto istitutivo della Casa di Assistenza, viene incaricato il notaio Luigi Cimino  al quale, come compenso, viene  corrisposta la somma di lire duecentomila interamente sborsata, con generosità, spontaneità e soddisfazione piena, dal professore Sgromo. È il 17 ottobre 1949. Poi, sollecitando la liberalità di amici  facoltosi, quali il dott. Bernardo Bevilacqua, il possidente don Ercole Massara di Monterosso Calabro, il proprietario terriero don Carlo Crupi, il marchese Stillitani, l’on. Antonio Capua (al quale in seguito il dott. Perugini conferirà, anche per altri meriti, la cittadinanza onoraria), e di tanti altri munifici concittadini, riesce a raccogliere i contributi necessari per avviare, in breve tempo,  il funzionamento della nuova istituzione umanitaria senza intaccare il capitale iniziale e senza svilire la corposa collezione di monete antiche con una conversione in valuta corrente. Con l’aiuto di suor Assunta, riesce a mettersi in contatto con le suore Francescane del Signore di Caltanissetta, la cui Madre Generale Annina Ragusa, il primo febbraio 1952,  dichiara la sua disponibilità ad accettare dall’ECA, rappresentata personalmente dal professore Sgromo,  la convenzione mediante la quale le si demandava l’incarico di assistenza agli ospiti della Casa “Maggiore Perugino”. Subito dopo egli avvierà la pratica per l’elevazione  dell’Ospizio stesso ad Ente morale.

Inserita quest’altra  importante tessera nella presente narrazione come doveroso inciso, notiamo che il Nostro, dopo aver insegnato per qualche tempo fuori Curinga, all’inizio dell’anno scolastico 1950/51  ritorna al paese natio giusto in tempo per ricevere il testimone, anche questa volta come un segno del destino, dal suo venerato maestro andato in pensione proprio l’anno prima. L’opera educativa che intraprende in favore dei figli degli amici e dei  concittadini,  assume il valore di una vera e propria benedizione divina per gli scolari, per le loro famiglie, per la comunità intera.

In primo luogo perché, per quanto riguarda la classe,  egli si pone su una naturale linea di continuità con l’opera svolta dal suo indimenticato maestro, del quale aveva assorbito metodo e spirito operativo, per cui dagli scolari non viene avvertito nessun trauma né per la nuova figura di maestro, né per la novità dei programmi didattici (in vigore dal 1945) perché anch’egli non si adagia a seguire alla lettera le indicazioni programmatiche del ministero, ma si adopera con tutte le sue forze per sforarne il tetto al fine di fornire agli alunni l’opportunità di una preparazione quanto mai ampia e la migliore formazione possibile; era consapevole che le conoscenze scolastiche per la maggior parte di essi sarebbero rimaste quelle conseguite nel corso delle elementari e che se gli stessi avessero potuto contare su apprendimenti congrui e solidi avrebbero potuto affrontare con tranquillità le difficoltà che la vita riserva ad ognuno. In secondo luogo la sua stabile presenza in Curinga  diventa garanzia di serenità per studenti e genitori in quanto essi avrebbero potuto fare affidamento su di lui, in caso di necessità, per ogni disciplina di studio. Le sue competenze infatti spaziano  dalle lingue straniere (inglese, francese, tedesco, spagnolo, … arabo, perfino) alla matematica, dalla lingua e letteratura italiana alla fisica, dalla lingua e letteratura latina alla chimica, alla storia, alla filosofia, alla pedagogia , alla psicologia, alla didattica, alla …

Veramente unico, semplicemente superlativo!

Un luminoso esempio di cultore del sapere universale  da additare alle future generazioni!

Inoltre, nel corso della sua attività di insegnante sta costantemente attento  a scoprire, coltivare ed esaltare, con la stimolante severità di un amorevole padre, i talenti che si trovano in nuce nei fanciulli per assecondarli nella fioritura e, quando constata che alcuni scolari, pur essendo dotati di  buone capacità di apprendimento, appartengono a famiglie che, per le disagiate condizioni economiche, non potrebbero affrontare le spese necessarie per la frequenza dei gradi successivi di scuola da parte dei figli, egli, non solo si impegna a farli studiare lo stesso, offrendosi a prepararli privatamente e in modo gratuito, ma anche a procurar loro i testi scolastici necessari: mira ad avviare, con sensibilità rara e religioso altruismo, il riscatto culturale e sociale dei ragazzi che si dibattono nelle stesse ristrettezze economiche che aveva sperimentato sulla sua pelle a quella stessa età. Le frotte di giovani studenti che affollano a turno e in numero sempre crescente  il suo studio (e con essi i curinghesi tutti) cominciano così a “intraveder le stelle” dopo i lunghi secoli bui soggetti alle nefaste tenebre dall’ignoranza.

Ma non è mai soddisfatto completamente.

Ricordo, mentre seguiva orgoglioso le giovani promesse che frequentavano le sue lezioni,  di averlo sentito spesso mormorare sommessamente con cruccio: “Anche Antonio…, Vincenzo…,  Domenico…, Francesco … erano bravi, capaci, intelligenti e avrebbero potuto …. Peccato!  È  veramente un peccato che i genitori  non mi hanno ascoltato e non hanno permesso loro di studiare!“

Ad ogni modo, i suoi alunni cominciano ad invadere progressivamente le scuole medie e le superiori dei centri vicini, dimostrando di possedere veramente una marcia in più rispetto agli altri studenti ed egli può essere tranquillamente considerato il maggiore artefice dell’esplosione culturale della comunità curinghese.

 Per un riconoscimento ufficiale della sua cultura si era intanto iscritto alla celebre Università Orientale di Napoli e nel 1952 si laurea in Lingue e, principalmente, in Lingua e Letteratura Inglese, discutendo, rigorosamente in  inglese, la tesi su Thomas Hardy preparata con scrupolosa dedizione per tutta la durata dell’estate di quell’anno. Resta tuttavia molto deluso ed avvilito perché i relatori non gli consentono di esporre in maniera esaustiva gli argomenti  della tesi, con pretestuose interruzioni miranti a frenarne lo slancio appassionato e profondo delle sue disquisizioni.

Ma egli, di certo, non appartiene alla categoria di quelli che gettano la spugna alle prime difficoltà. Nonostante qualche comprensibile, temporaneo scoramento, come ha combattuto finora combatterà per tutta la vita con indomita forza d’animo e  coraggio leonino nell’eroico tentativo di confutare le pessimistiche conclusioni filosofiche dei tanti poeti e pensatori che hanno interessato i suoi studi, rivelandosi in ogni circostanza eloquente espressione dell’aspetto migliore dell’essere uomini.

 Risale agli anni immediatamente successivi al conseguimento della laurea la sua collaborazione a “Calabria Letteraria”, la rivista culturale fondata dal prof. Emilio Frangella nel 1953,  su cui appariranno alcuni interessanti articoli di storia locale, e al quotidiano “Il Tempo” di Roma.

Si iscrive poi all’Università di Palermo per esaudire (con un’intuizione a cui oggi, alla luce della multiculturalità che sta maturando nel nostro paese, possiamo attribuire senz’altro crismi di profetica lungimiranza)  l’aspirazione della vita: conseguire la laurea in Arabo. Ma, non essendogli stati riconosciuti in questa sede gli esami di Lingua Inglese, nonostante avesse esibito la relativa laurea, sia per questa nuova  cocente delusione  sia  per accondiscendere alle attese dell’adorata moglie che richiedeva il  suo imprescindibile apporto nell’educazione dei due figlioletti, Tino e Lello, nati nel frattempo, decide di abbandonare l’idea e si iscrive in Vigilanza e Didattica al Magistero di Messina, come, in alternativa, gli propone lei, evidenziatrice dolce e premurosa delle sue più recondite aspirazioni, animatrice limpida e squillante dei suoi più intimi pensieri.

  Conseguito con soddisfazione il diploma in Vigilanza e Didattica, esordisce nella carriera direttiva dapprima come incaricato e, superato il relativo concorso, classificandosi ai primissimi posti della graduatoria, a livello nazionale, come Direttore di ruolo, inizialmente nel Circolo didattico di Gizzeria , d’onde si trasferirà al II Circolo di Sambiase e poi al II Circolo di  Lamezia Terme – Nicastro dove opererà fino all’età della pensione.

Per alleviare i disagi ai figli iscritti agli Istituti Superiori della Città della Piana, per la comodità di essere più vicino al posto di lavoro e per non derogare al principio della massima efficienza nell’esercizio della professione, assume la sofferta decisione di trasferirsi a Nicastro.

Comincia, ancora una volta, un nuovo ciclo della sua vita, ma la sua signorilità, la sua umanità e tutte la altre nobili  prerogative di cui è ricco, restano immutate.

Anche in quest’altra dimensione del suo magistero cerca, in ogni circostanza, di mettere in luce i pregi dei suoi insegnanti e la naturale gratificazione che riserva loro diventa un propellente magico che spinge verso la perfezione l’opera didattico - educativa di tutti, anche e soprattutto, di quei  docenti meno motivati per natura, accendendo  in ciascuno  di essi un’inesauribile carica di stima, di ammirazione, di affetto e di riconoscenza  che rimarrà sempre viva ed indelebile nel tempo.

La fonte del suo donare non si affievolisce neanche ora, anzi aumenta la portata della profusione perché accorrono ad attingervi linfa per la loro professione pure i lametini, non solo i maestri del paese d’origine.

In occasione dei concorsi magistrali i Curinghesi principalmente si affidano a lui per la preparazione e mentre per altri direttori scoccano le stagioni delle pregiate vendemmie d’annata, per lui iniziano i periodi della semina,  coronata dalla gratificante soddisfazione di aver contribuito anche col  cuore alla sistemazione di tanti giovani maestri: sì, con tutto il suo cuore!

La sua vita ora sembra speditamente incanalata tra spalliere di fiori che sbocciano sui prosperosi sentieri percorsi dai figli e i cui petali, accarezzando la sua mente, ne profumano di gioia i pensieri.

Non immagina, non può assolutamente immaginare i due fendenti, e la loro spietata violenza, che gli saranno ancora riservati: la tragica, repentina scomparsa in un incidente aereo del figlio Tino con la fidanzata   e quella un po’ più lenta, ma sempre efferata e inesorabile, della nuora Rosilde. E tutte due le volte si dovrà chinare per recuperare i frammenti della forza di vivere dai fondali della disperazione. Lo soccorreranno, prima, la nascita del nipotino Vito che rinnoverà, nel nome e nelle premesse, lo zio, e che, con la carezza balsamica della sua presenza, lenirà i bruciori dell’anima,  e l’entrata in famiglia, poi, della nuova nuora, che riuscirà a colmare  il vuoto lasciato da Rosilde.   Al di sopra di queste due suture risanatrici si ergerà, come sempre,  la sublime consorte che, per amor del marito, assumerà dimensioni titaniche nel ricomporre a grano a grano la polvere del suo spirito, riconquistato puntualmente dopo ogni caduta, con vigorosa fermezza esaltata dalla biunivoca corrispondenza del vivere insieme, in perfetta sintonia, in  simbiosi assoluta.

 E non si può sottacere che anch’ella è aggrappata alla stessa barca di dolore!

 Negli ultimi tempi, ormai in pensione, sostenuto sempre amorevolmente dalla sua Bettina, alquanto rappacificato con la vita, si può gustare le gioie  di cui lo ripagano i diletti nipoti per il loro procedere sicuro e proficuo  sulle orme dei figli. 

 Si sta predisponendo a vivere intensamente il primo importante traguardo della vita del nipote primogenito Vito, la conquista della laurea, quando il suo cuore cede. Se ne va abbandonandosi,  pago,   tra le braccia amorevoli della moglie e in quelle infinite del figlio, accorso, per certo, dall’Alto.

Se ne va serenamente e il supremo esalar  del respiro avrà senz’altro dissolto ogni traccia di rimpianto. Di quell’unico rimpianto, di cui si crucciava spesso negli ultimi tempi, quando ancora valutava l’ultimo atto della sua esistenza con la visione finita di essere mortale: il distacco dall’impareggiabile compagna della sua vita.  Rimpianto che, ripeteva, sentiva alleviato alquanto dalla consolazione di saperla forte e battagliera  in nome suo, e, come non mai stracolma di intime e nobili risorse che si effondono in ogni direzione, intrise sempre di calda umanità. Rimpianto, diceva,  mitigato ancora dalla consapevolezza di saperla circondata da affetti limpidi, saldi, completi in ogni basilare componente.

È  il 17 gennaio 2004.

Sono trascorsi appena poco più di cinque anni da allora e sembra un’eternità, tanto immenso è il vuoto che avvertiamo intorno a noi!

È trascorso più di un lustro da quel triste giorno e sembra ieri, tanto è viva la sua presenza dentro di noi! 

E, perciò, non c’è stato alcun distacco!

Per la perfezione della dimensione eterna acquisita egli è in ogni istante vicino a tutti e a ciascuno dei suoi cari. Di ognuno, di sicuro, segue, precede, affianca,  vive senza soluzione di continuità,  i gesti, gli atti, i pensieri, i palpiti del cuore.

Nessun rimpianto, dunque!

Da parte mia un grazie costante ed infinito accompagnato da un atto di contrizione per tutto quanto di grande e di buono si era prefigurato per me e non è stato.

Dal profondo del cuore, Direttore Sgromo!

Dalle radici dell’anima, Maestro!

Era nato a Curinga il 23 marzo 1913.

Martino Granata

 

 

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